giovedì 19 marzo 2015

L’ILIADE DI SCALFARI E DI BARICCO È UN EQUIVOCO
di Giovanni Cerri 


I miei colleghi classicisti dell’Università e dei Licei sono in genere abbastanza soddisfatti per un certo rilancio mediatico di Omero oggi in atto: film, spettacoli teatrali, paginoni sui principali quotidiani a tiratura nazionale. Con i tempi che corrono per lo studio del greco e del latino, tutto fa brodo; se un po’ di chiasso intorno ad Omero finisse per incrementare il numero degli studenti interessati a quelle discipline, sarebbe comunque una boccata d’aria. Da questo punto di vista, potrei anche essere d’accordo. Tuttavia mi sembra che qualche riflessione il fenomeno, per come si sta realizzando, la meriti. Il film Troy è dichiaratamente un colossal-fumettone, che non ha e non vuole avere a che fare davvero niente col testo dal quale è stata tratta la sceneggiatura. Il recital di Alessandro Baricco è una pubblica lettura non dell’“Iliade”, ma di un sunto-rifacimento elaborato da Baricco stesso in funzione dello spettacolo. Film e recitazione hanno avuto entrambi grande successo di pubblico, dando così ragione alle scelte dei loro autori. Dunque nulla da obiettare. Ma Baricco ha poi pubblicato il suo copione presso la casa editrice Feltrinelli (settembre 2004) con il titolo Omero, Iliade, facendolo per giunta seguire da un pezzo conclusivo (pp. 157-163), nel quale crede di interpretare proprio Omero. 

Ecco che allora l’operazione comincia ad acquistare margini di equivoco. Egli afferma: «Per essere chiaro, vorrei dire che l’Iliade è un poema di guerra, lo è senza prudenza e senza mezze misure: e che è stata composta per cantare un’umanità combattente, e per farlo in modo così memorabile da durare in eterno, ed arrivare fino all’ultimo figlio dei figli, continuando a cantare la solenne bellezza, e l’irrinunciabile emozione, che era stata un tempo la guerra, e che sempre sarà. A scuola, magari, la raccontano diversamente. Ma il nocciolo è quello. L’Iliade è un monumento alla guerra». Poi aggiunge qualche notazione critica più fine: «È una storia scritta dai vincitori, eppure nella memoria rimangono anche, se non soprattutto, le figure umane dei Troiani»; e, ancora, scopre giustamente «tra le righe» l’emergere continuo di «un amore ostinato per la pace», e cita alcuni passi pertinenti. 
Chiunque abbia studiato con un minimo di attenzione e di sensibilità il poema, sa che è ben altro e ben di più che un inno alla guerra, increspato da qualche rimorso di pace. E’ come dire che la Divina Commedia sia stata composta da Dante per fare propaganda cattolica, pur con qualche sana puntata anticlericale. Comunque, fino a questo punto, non mi sarei ancora allarmato: Baricco, con quella bocca, può dire quel che vuole! Senonché la sua “critica” ha scatenato un dibattito giornalistico, che lo ha seguito sullo stesso terreno, avvalorando quel giudizio forviante e riduttivo, finché nella provocazione è caduto in pieno un uomo dello spessore culturale di Eugenio Scalfari, il quale si muove sulle sue orme nelle pagine culturali della Repubblica (1 ottobre 2004), con inizio in prima pagina e sotto il titolo Iliade: la guerra tra orrore e bellezza. 
Purtroppo, il titolo non è errore redazionale, ma rispecchia fedelmente il contenuto del pezzo. Peccato che uno dei più grandi critici del Novecento, Wolfgang Schadewaldt abbia iniziato l’introduzione alla sua splendida traduzione tedesca in versi con le seguenti parole: «L’Iliadetratta le vicende della guerra di Troia, cioè una successione ininterrotta di battaglie. Eppure non è un poema guerresco. Parla di eroi e dei loro destini, ma non è un poema eroico». Peccato che Omero stesso, nel proemio, chiarisca a scanso di equivoci che il suo tema poetico non è la guerra in sé, della quale nemmeno indugia a narrare l’epilogo, ma «l’ira di Achille», cioè un dissidio tragico tra eroi, nel quale entra in gioco tutta intera la loro personalità, dall’orgoglio ferito all’amore frustrato, con risvolti di carattere generale che investono questioni basilari di diritto, osservanza religiosa, lealtà dei comandanti verso l’esercito, correttezza costituzionale tra capo supremo e re confederati, valori la cui infrazione comporta la rovina della collettività nel suo insieme. Perché mai i Greci antichi, per i ben mille e quattrocento anni della loro storia, avrebbero continuato a farne, con recitazioni e letture scolastiche, il poema fondante della loro civiltà, se fosse stato solo un canto di guerra? 

Mi piacerebbe un giorno poter illustrare la vera natura dell’Iliade a livello giornalistico: ma ora è di altro che voglio discutere. La divulgazione è un’ottima cosa, se è intelligente e competente: è anzi il sale della cultura, perché porta a livello di cultura media i risultati conoscitivi che lo meritino. Diviene invece pessima, se è banalizzante; ancora peggiore, se, come purtroppo è in questi ultimi sciagurati decenni, la singola operazione si iscrive in un processo univoco di banalizzazione della cultura, della politica e del costume. C’è anche un fatto di etica professionale. Perché persone, rispettabilissime e valide sotto altri profili, debbono impancarsi a critici letterari, pur risultando di evidenza palmare che sono del tutto incompetenti in materia? Perché il sistema consente loro la pubblicazione di sciocchezze ai massimi livelli dell’editoria? E perché il grande pubblico deve finire col credere che l’Iliade sia quella robina lì, e non quello che realmente è, un grande poema cosmico sulla vita umana e sul suo mistero? Anche l’Iliade, come la Divina Commedia, è un «poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra». 

Alludevo sopra alla banalizzazione politica. Ebbene, la banalizzazione critico-letteraria porta Baricco e Scalfari anche a quella. Sì, perché vogliono poi spremere una morale attuale da quella favoletta esopica cui hanno ridotto il racconto di Omero! Una morale attuale in rapporto alla nauseabonda guerra dell’Iraq (e dell’Afganistan). Dice Baricco: «Quel che suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello (corsivo nel testo)». Con la sua estetica bellicistica Omero, anticipando Marinetti, ha il merito oggettivo e involontario di svelarci qual è la ragione psicologica profonda del fatto che la guerra abbia ripreso a dilagare: nei risvolti del nostro cuore la amiamo; solo dopo aver preso coscienza di ciò, saremo in grado di elaborare un’estetica diversa, che ci porti fuori dal circolo vizioso: «Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiare la penombra dell’esistenza, senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte». Dall’estetica dannunziana del rischio e del lavacro di sangue a una sana estetica della quotidianità: questa è la soluzione dei mali che ci attanagliano. 

E qui Scalfari si diversifica finalmente da Baricco. Perché scendere così in basso, e avvilupparsi nella mediocrità? Meglio un’etica-estetica più elitaria, presentabile anche nei salotti di un certo livello: «Personalmente credo che si debba e si possa costruire un’altra bellezza ed è quella della conoscenza di sé e dell’amore per gli altri... L’Ulisse dantesco ha certamente potere, è un navarca e guida i suoi compagni. Ma dove li guida? Non verso la guerra che ha lasciato da tempo alle sue spalle. Li guida verso un viaggio misterico e iniziatico... Non è forse questa la nuova bellezza con la quale vincere i fantasmi dell’orrore e i cavalieri dell’apocalisse portatori di morte e di distruzione?». Ed è la chiusa del suo pezzo. 

La banalizzazione di Omero ha portato così i due pubblicisti a una mistificazione ideologica vera e propria: i guai del nostro tempo, a cominciare dalle stragi del Medio Oriente, sono in realtà colpa nostra (cioè dei popoli), sono colpa dell’Omero che si annida in noi. Bisogna trovare una via di predicazione che ci redima, e sarà la pace. Una regressione davvero paurosa verso l’illuminismo e l’idealismo più ingenui! E l’aggressione americana? Il petrolio? L’apparato militare-industriale? I centri di potere multinazionale, interessati al controllo capillare del mondo? Ma queste, si sa, sono ubbìe del vecchio marxismo. 

(in “Liberazione”, 3 novembre 2004)

mercoledì 18 febbraio 2015

UNA CONFERENZA AL GIOBERTI


Venerdì 13 febbraio, dalle ore 08.15  alle ore 10.05, presso l'Aula Magna del Liceo Gioberti, nell'ambito del progetto "Conferenze di cultura classica", promosso dal Dipartimento di latino e greco nel triennio classico, siè tenuta la conferenza del prof. Giovanni Cerri (Università degli Studi di Roma Tre) su "La questione omerica e il concetto di poema tradizionale", rivolta agli studenti delle prime liceo classico.

Il professor Cerri si propone di “arrivare al concetto di poema tradizionale attraverso un’ esemplificazione particolare”, assumendo cioè come esempio i comportamenti, le normative riguardo il trattamento dei caduti in battaglia, per poi arrivare a una conclusione generale, “cioè che il poema è concresciuto nel tempo, nei secoli su se stesso, per agglutinazioni successive”.
Il professore si sofferma con molta precisione sul tema del trattamento dei cadaveri (essendo questo il punto di forza della sua esposizione), per dimostrare un’inversione di tendenza su questo argomento nel XXIV canto dell’ Iliade rispetto al resto del poema. Era norma panellenicamente riconosciuta, dall’età arcaica in poi, la restituzione dei corpi dei caduti dopo ogni battaglia; venivano anche indetti dei giorni di tregua per questo e chi non la rispettasse incorreva nell’ accusa di sacrilegio. Nell’Iliade però non vige questa regola (fino all’inizio del  XXIV canto almeno), anzi è affermato e condiviso il principio contrario, quello dello “scempio libero”, cioè della possibilità di infierire sul corpo del nemico vinto, anche senza un particolare motivo di vendetta: l’esempio usato dal professore è quello di Patroclo, personaggio tratteggiato in tutta l’Iliade come di indole mite, che dopo aver ucciso Sarpedone incita i compagni a sfregiarlo. Questo termine in greco (αἰκίζω) assume il doppio significato di mutilare e di disonorare a un tempo; ciò fa capire quanto fosse importante per i compagni salvare il corpo del morto dalle mani dei nemici.
Nel XXIV canto invece si verifica come detto quest’ inversione di tendenza, ravvisabile già durante il concilio degli dei dopo la morte di Ettore: Apollo in particolare si scaglia contro il modo in cui Achille fa vilipendio del corpo dell’ eroe troiano. Il dio accusa il Pelide non solo per la sua brutalità, ma anche e soprattutto perché trasgredisce ogni regola etica; regola che però si presenta per la prima volta in tutto il poema. Questa nuova pratica prevede anche la possibilità di riscattare il morto, versando una somma di denaro; nel caso dell’ Iliade questo prende il nome di Ἥκτορος λύτρα, ‘il riscatto di Ettore’, ed è una sorta di passaggio intermedio tra la vecchia norma (il diritto di poter infierire sul cadavere) e quella nuova panellenica (la restituzione incondizionata del corpo).
Assunto ciò, si può arrivare alla conclusione generale: questa incongruenza, troppo vistosa per essere ignorata, contrasta in modo decisivo con le teorie unitarie che attribuiscono tutto il poema a un solo autore. “Non è verosimile, o perlomeno non sembra veramente probabile, che un unico poeta personalmente favorevole alla restituzione del corpo dei caduti in battaglia si sia dilungato per tutto il corso del poema nella descrizione minuta delle offese e delle mutilazioni più varie cui sono esposti i cadaveri, senza lasciar trapelare il benché minimo indizio di dissenso o anche soltanto di disagio, per riservare soltanto al brano finale l’espressione della propria condanna categorica di tale comportamento”. Così il professore commenta l’evidenza che permette di confutare le tesi unitarie e contemporaneamente di introdurre il concetto di poema tradizionale, che riprende il pensiero di Murray: basandocisi anche sul pensiero di Vico di poema come enciclopedia degli usi e costumi di una cultura, il poema tradizionale è quindi definibile come strumento pedagogico principale della società, e in quanto tale bisognoso di costante aggiornamento.

Matteo Fantozzi 

A PROPOSITO DI TRADUZIONE...


Dopo due anni di intenso studio di morfologia e sintassi, di brani semplificati e "liberamente tratti da" ... FINALMENTE ci siamo accostati  agli autori!

Cogliamo allora la provocazione di Luciano Canfora che sul Corriere della Sera del 10 novembre 2013  tesseva l'elogio del tradurre:

“Tradurre è la più vitale delle attività umane […] Lo sforzo di tradurre gli antichi […] è quello che comporta il massimo di capacità intuitiva. Chi ha avuto, o per avventura tuttora conserva, una qualche familiarità col patrimonio scritto greco-latino, sa quanto il valore del singolo termine (spesso polisemico e passibile persino di sfumature opposte di senso) si chiarisca solo se si è prodotta l’intuizione di ciò che l’intera frase significhi. E per converso la frase prenderà piena luce soprattutto dalla comprensione delle parole principali che la compongono. È in questa circolarità che si produce il salto verso la comprensione- intuizione. È in questa circolarità che si comprende cos’è il conoscere. È grazie a questa circolarità che si approda al sapere scientifico […]
Chi ebbe la felice opportunità di cimentarsi nella comprensione del lascito scritto di quei remoti nostri interlocutori sa che un siffatto processo interpretativo non è mai dato una volta per tutte. Ovviamente è proprio nel cimento scolastico che si mette in moto quel processo. Nel suo nascere e man mano affinarsi nella testa degli scolari esso ha efficacia, forse incomparabile, per il continuo trapassare dall’intuizione alla sintesi. A questo «serve» il tradurre gli antichi a scuola"

E voi, che cosa ne pensate?